“Un gioco è un sistema formale basato su regole, con risultati variabili e quantificabili.“

Vi siete mai chiesti cosa e’ il gioco? proviamo a spiegarlo noi di #italiachegioca.

Il gioco (dal latino iocus, scherzo, burla, in seguito “gioco”) può essere inteso come una libera attività, regolata da principi interni, messa in atto individualmente o da gruppi, talora in competizione tra loro, al fine di realizzare sé stessa, senza altri scopi immediati che quelli ludici di ricreazione e svago, e, allo stesso tempo, di sviluppare attitudini fisiche, spirituali e intellettive.

Nell’accezione comune, il temine “gioco” si discosta completamente da una qualsiasi connotazione di “serietà”, se però ci soffermiamo su una citazione di Montaigne, notiamo come invece sia sinonimo di azione seria quando ci riferiamo ad un bambino: “i giochi dei bambini non sono dei giochi; bisogna invece valutarli come le loro azioni più serie”.
Per i bambini non c’è nessuna differenza tra il gioco e ciò che un adulto potrebbe considerare come un lavoro; la differenza fondamentale sta nella gratuità del comportamento: il bambino che gioca lo fa per il puro piacere di giocare, e non in vista di una remunerazione.

Solo più tardi, una volta che giungono ad associare un’attività alla ricompensa, essi iniziano a considerare un comportamento mentre lo pongono in atto in vista di benefici a lungo termine piuttosto che per la gratificazione immediata. Ciò è dovuto allo sviluppo di abilità cognitive che consentono al bambino di vedere il legame tra causa ed effetto.
Attraverso il gioco, infatti, il bambino incomincia a comprendere come funzionano le cose, che cosa si può o non si può fare con determinati oggetti, si rende conto dell’esistenza di leggi del caso e della probabilità, di regole che vanno rispettate. L’esperienza del gioco insegna al bambino ad essere perseverante e ad avere fiducia nelle proprie capacità; è un processo attraverso il quale diventa consapevole del proprio mondo interiore e di quello esteriore, incominciando ad accettare le legittime esigenze di queste sue due realtà.
Ma il gioco rimane un aspetto fondamentale della vita anche dell’individuo adolescente e adulto. E’ un dato di fatto che gli adulti giocano, e i maschi più delle femmine: dagli sport in generale alla partita a carte al cruciverba al videogame, l’adulto mostra di apprezzare il gioco come e forse più dei bambini. Si tratta dunque di un fenomeno che ha a che fare con la parte più profonda della psiche umana e ne rappresenta un’esigenza insopprimibile, a riprova del fatto che esso sfugge a qualsiasi definizione semplicistica.
La sola definizione che mi sembra soddisfacente è quella proposta da Schiller: gioco è qualsiasi attività che viene scelta per se stessa, e non in vista di un utile o di uno scopo esterno.
Cercherò ora di analizzarne la funzione:

Se ci chiediamo perché il bambino gioca, la prima risposta che ci viene in mente è quella cui accennavo sopra: lo fa per il piacere che ne ricava. In realtà le cose non sono così semplici: lo dimostra l’interesse tributato da Sigmund Freud a questo fenomeno e l’interpretazione psicanalitica che egli ne dà.
Il gioco ha, secondo Freud, una funzione che può essere riportata al fenomeno della “coazione a ripetere”. Il comportamento ripetitivo del bambino, tipico del gioco, è in sostanza uno strumento per superare le esperienze dolorose e traumatiche, ritualizzandole e ponendole sotto il controllo della volontà. All’interpretazione del gioco in Freud ho dedicato un capitolo a parte.
Inoltre l’attività ludica (dal latino ludus = gioco), come abbiamo accennato, è basilare per lo sviluppo intellettivo del bambino, perché il bimbo, quando gioca, sorprende se stesso e nella sorpresa acquisisce nuove modalità per entrare in relazione con il mondo esterno.
A seconda dell’età, il bambino nel giocare impara ad essere creativo, sperimenta le sue capacità cognitive, scopre se stesso, entra in relazione con i suoi coetanei e sviluppa quindi l’intera personalità.
Il gioco quindi favorisce:
– lo sviluppo affettivo
– lo sviluppo cognitivo
– lo sviluppo sociale.
Le varie modalità di gioco sono legate allo sviluppo emotivo del bambino e vanno via via modificandosi con l’età: per questo sono rivelatrici del suo equilibrio psichico.

Un libro-gioco o anche librogame è un’opera narrativa che invece di essere letta linearmente dall’inizio alla fine presenta alcune possibili alternative mediante l’uso di paragrafi o pagine numerate.

Rivolgendoci ad animatori, educatori ed insegnanti ci interessa far vedere la non banalità del gioco e la ricchezza dell’esperienza ludica, per i bambini e per gli adulti.

Numerosi studiosi hanno incontrato sulla loro strada di ricerca il gioco. Abbiamo una collezione di diverse definizioni di “gioco” provenienti dagli ambienti della psicologia, della psicoanalisi, della ricerca storica, degli studi naturalistici, della sociologia ecc.

Possiamo trovare molti punti in comune e parole chiave ricorrenti ma anche molte differenze e punti di vista non conciliabili. Probabilmente, se approfondissimo le ragioni di ogni autore, scopriremo che molte differenze derivano dalle motivazioni che li hanno spinti  a occuparsi dei giochi, dai diversi tipi di gioco e modi di giocare che ognuno di loro ha considerato, dal contesto teorico e pratico in cui si sono mossi.

Ciò che ci interessa soprattutto notare è un fatto estremamente semplice di cui gli animatori devono tenere conto, cioè il fatto che l’esperienza ludica di un gruppo ha un significato più vasto di quello che una persona sola, incluso l’animatore, ne pensa o dice. Potranno esserci degli aspetti e dei significati in più o diversi da quelli previsti o visti da uno, ma validi  e importanti per altri membri del gruppo che gioca, indipendentemente dal fatto che questi vengano o meno esplicitati.

Tra le molte definizioni, accenniamo ad alcune. Si tenga conto che generalmente il gioco viene associato all’infanzia e opposto al lavoro in quanto “non serio”.

Freud definisce il gioco come mezzo per l’elaborazione del lutto  (o della separazione dalla madre). Il contrario del gioco per Freud non è il “serio” ma il “reale”.

Melanie Klein, psicoanalista dell’infanzia, dice che attraverso il gioco il bambino esprime i suoi fantasmi, i suoi desideri, le sue angosce.

Donald Winnicott considera l’aggressività come motore dell’attività esplorativa, “crescere significa prendere il posto dei genitori… nel fantasma inconscio che sottostà al gioco, crescere è per natura un atto di affermazione di sé.“

Piaget definisce che ogni tipo di gioco appartiene solo a quel determinato momento dell’evoluzione del bambino che lo porta a sostenersi. Così i giochi di imitazione necessitano dell’attività funzionale, dell’assimilazione, del piacere normale del successo, della relazione con gli altri.

Un altro pedagogista, Pier Parlebas definisce il gioco come iniziazione alle regole e fattore sociale, che lascia al giocatore la possibilità di esprimere la propria personalità. Acquisizione delle regole e sviluppo dell’autonomia sono due ingredienti essenziali nell’educazione.

Il pedagogista tedesco H. Scheuerl considera il gioco come:

  • momento di libertà
  • momento di infinità interiore che tende a prolungarsi nel tempo e non è finito come il dovere,
  • momento della finzione (irreale) in cui l’individuo esce dalla realtà per crearsi il suo mondo (il gioco diventa realtà) l’individuo è presente adesso (nel gioco) non ieri né domani, ha un tempo suo in questo spazio che non corrisponde al tempo reale
  • momento dell’ambivalenza: il gioco ha sempre più di un senso. Spesso è simbolico fra piacere reale, ridere, paura.
  • un gioco si svolge all’interno di uno spazio suo (regole del gioco, spazio fisico del gioco)

Secondo J.Huitzinga il grande filosofo storico olandese, quest’attività:

  • è una funzione che contiene senso,
  • è un intermezzo della vita quotidiana, è accompagnamento, complemento e parte della vita in  generale,
  • è indispensabile all’individuo in quanto funzione biologica e indispensabile alla comunità in quanto funzione culturale,
  • ha un svolgimento proprio e un senso in sé, comincia, ed a un certo momento è finito. Può essere ripetuto,
  • l’arena, il tavolino da gioco, il cerchio magico, il tempio, tutti sono per forma e funzione dei luoghi di gioco, cioè spazio delimitato, luoghi segregati, cintati,
  • realizza nel mondo imperfetto e nella vita confusa una perfezione temporanea limitata,
  • mette alla prova la forza del giocatore, il suo vigore fisico, la sua perseveranza la sua  ingegnosità,
  • il suo coraggio, la sua resistenza e la sua forza morale.

Roger Callois dà 6 definizioni di gioco:

  • un’attività libera alla quale il giocatore non può essere costretto senza
  • che il gioco perda il suo divertimento e la sua attrazione.
  • un’attività separata che si svolge all’interno di limiti precisi e prestabiliti di spazio e tempo.
  • un’ attività incerta il cui svolgimento e risultato non è determinabile dall’inizio, perché nonostante ci sia la costrizione di arrivare a un risultato, bisogna necessariamente lasciare una certa  autonomia al giocatore.
  • un’attività improduttiva che non crea né ricchezza né prodotti né altri
  • elementi nuovi e che, a parte uno spostamento della proprietà
  • all’interno della cerchia dei giocatori, finisce in una situazione identica
  • a quella dell’inizio del gioco.
  • un’attività regolata, sottomessa a convenzioni che annullano le leggi
  • vigenti per un momento e introducono una nuova legislazione
  • generale.
  • un’attività fittizia che viene accompagnata da una specifica coscienza
  • di una seconda realtà o una non-realtà libera in relazione alla vita
  • quotidiana.

La sociologa tedesca Elke Callies definisce il gioco invece come:

  • un atteggiamento interiore, spontaneo e  fine a se stesso,
  • è libero; la decisione se piace o no spetta unicamente all’individuo.
  • confronto con l’ambiente: è un atteggiamento attivo, espressivo e concreto
  • esperienza concreta che parte dalla progettazione per arrivare alla realizzazione
  • atmosfera rilassata in cui tensione e rilassamento si alternano per creare (se equilibrati) uno stato di felicità.
  • momento di espressione delle proprie emozioni e sensazioni.

Passiamo all’approccio biologista che viene sviluppato da etologi che definiscono il gioco come preparazione alla vita da adulto. La nozione del gioco ricopre diverse realtà: il gioco è un segno e un mezzo di sviluppo del bambino e luogo dell’espressione dell’inconscio, mezzo di apprendimento e fonte di piacere. Il gioco può essere spontaneo o fatto di regole, utilizza “gli oggetti per giocare” cioè i giocattoli ma anche i corpi, lo spazio e la natura.

Il gioco è un attività naturale per tutti i mammiferi e gli animali a sangue caldo: Pare che i pesci e i rettili, essendo legati ad un sistema di reazioni basati sulla sopravvivenza e l’istintività, non giochino. Possiamo allora dedurre che  il gioco richiede uno sviluppo cerebrale superiore, un cervello ben integrato capace anche di sognare. Il sogno sembra nascere nel sistema limbico, sede delle emozioni e delle immaginazioni. Inoltre il sangue caldo sembra predisporre al gioco. Grassi e peli proteggono il corpo dall’escursione termica e trattengono così le energie necessarie per giocare. Come i cuccioli dei mammiferi che giocano per appropriarsi le competenze motorie e sociali necessarie alla sopravivenza, anche il cucciolo d’uomo gioca se cresce in un ambiente protetto, in assenza di fame, pericolo, e altre deprivazioni.

Le creature giocose hanno più massa neurale nei loro cervelli complessi. Questi sistemi neurali  si trovano nei lobi parietali  della corteccia  e sono direttamente legati alla percezione corporea, al movimento e all’elaborazione di informazione nel tronco cerebrale, nel talamo e nella corteccia.

L’impulso a giocare nasce nel cervello e non deve essere imparato.

Ci sono una serie di sostanze chimiche prodotti dal corpo che nutrono l’impulso di giocare ed altri che lo inibiscono. Il cervello produce dopamina quando giochiamo. Questa sostanza crea lo sviluppo di  reti neuronali  in tutto il cervello:  Recenti ricerche hanno rilevato che in pazienti del morbo di Parkinson e in bambini afflitti dalla sindrome di deficit di attenzione, il livello di dopanina è molto basso. Perciò il gioco è così importante per prevenire iperattività e difficoltà nell’apprendimento.

Tra i cuccioli dei mammiferi, l’uomo gioca più al lungo. Il suo sistema nervoso malleabile è in costante sviluppo per tutta la vita. Giocando egli  è più disponibile a rischiare, rimane più flessibile, impulsivo e creativo, pronto a seguire nuove idee fino alla sua morte.

Quando giochiamo mettiamo in atto tutto l’apparato sensoriale. Più di 80% del nostro sistema nervoso è occupato a integrare gli input sensoriali provenienti dal nostro corpo e dall’ambiente circostante. In questo senso il nostro cervello funziona come una macchina ad elaborazione sensoriale e il gioco è la chiave d’accesso a questa “macchina”. I nostri ricettori tattili e il cervello richiedono la diversità per poter integrare le sensazioni come un abbraccio forte, la carezza del vento nei capelli, il solletico alle gambe dell’erba alta, ecc. I nostri sensi hanno bisogno di stimoli diversi e se vogliamo mantenere il nostro cervello attivo, dovremo uscire dalla routine e fare ogni giorno qualcosa di diverso come mangiare con la sinistra, fare la doccia ad occhi chiusi o scendere la scala all’incontrario come sostiene il neurobiologo Lawrence C. Katz

Le sfide al livello sensoriale ci aiutano a rimanere svegli e ad attivare il nostro sistema vestibolare. Persone che vivono con intensità sensoriale si riconoscono dall’entusiasmo, dalla curiosità e giocosità con cui affrontano la vita in uno spirito innocente da bambino.

Possiamo affermare che il gioco è sinonimo di apprendimento Già il bambino piccolo nelle prime settimane di vita comincia a giocare con il proprio corpo, o meglio: parti del suo corpo diventano il suo giocatolo. Prima ancora che si accorge che esistono altre cose intorno a se oltre al seno della mamma.. Il bambino comincia a giocare con i piedi, con le mani e si rende conto che ha delle estremità che può in qualche modo comandare e manipolare., ci gioca ed esplora. Man mano che cresce pone l’attenzione al di fuori del suo immediato raggio di percezione, viene attirato da stimoli visivi e sonori e comincia attraverso  una serie di giochi-sperimenti ad esplorare  il principio di causa-effetto agendo sugli  oggetti  dell’ambiente circostante. In questa fase è importante di offrire al bambino stimoli ben dosati al livello percettivo che lo inducano ad esplorare ma non lo blocchino per  uno sovraccarico di stimoli di cui deve difendersi.

Purtroppo la frenesia della nostra vita moderna è piuttosto controproducente allo sviluppo sensoriale. Troppi stimoli visivi e uditivi (un vero bombardamento di immagini e rumori) fanno si che i nostri sensi si chiudono. La nostra paura dei pericoli e dello sporco ci induce inoltre spesso ad impedire ai bambini di sperimentare l’ambiente al livello sensoriale. Recente ricerche sottolineano che l’ambiente asettico e la mania per l’igiene indeboliscono il sistema immunitario e sono le cause per molte forme di allergie. Il sistema immunitario si organizza attraverso le esperienze, e le malattie si sviluppano più facilmente quando il sistema immunitaria non può confrontarsi con batteri e virus.

Il gioco ci aiuta a crescere ed ad appropriarci di tutte quelle competenze sociali necessarie per istaurare rapporti sani con gli altri. Nel gioco impariamo a rischiare, a difenderci, a negoziare a sperimentare e vivere in pieno fantasia e curiosità. Una ricerca americana alla Yale University ha mostrato che i bambini che giocano molto al gioco simbolico, mostrano più facoltà di leadership a scuola, si comportano in modo più cooperativo e  meno competitivi o intimidatori verso gli altri.

Giocare liberamente alla lotta, a  rotolarsi per terra, ad acchiapparsi, rincorrersi sono attività necessarie per sviluppare un senso di corporeità, equilibrio e la capacità di centrarsi. Inoltre crea la coscienza del dove siamo nello spazio in relazione con gli altri. Bambini,  ai quali viene negato giocare ad alto livello di contatto fisico spesso sono impacciati e hanno poca consapevolezza dello spazio intorno a se. Hanno difficoltà di essere presenti sia in relazione con gli altri sia in situazioni di apprendimento perché gli manca la percezione della propria corporeità.

Bambini abbandonati all’isolamento che non hanno potuto  toccare, muoversi e giocare,  sviluppano anormalità cerebrali associati alla violenza, l’allucinazione e la schizofrenia. Il loro cervello è da 20 a 50% più piccolo del normale. Ciò si attribuisce al fatto che l’isolamento inibisce lo sviluppo di grandi aree del cervello: il sistema sensoriale del tronco cerebrale che controlla il movimento e l’equilibrio, l’area responsabile per il tocco e l’area affettiva legata direttamente al tocco e al movimento.

Nel gioco possiamo sviluppare empatia, autostima, altruismo e compassione, competenze sociali che ci aiutano a relazionarci meglio con gli altri ed essere facilitati nell’apprendimento scolastico.

Nella sua crescita il bambino passa dalla fase esplorativa delle cose alla fase del “tu”, riconosce che ci sono altre entità con le quali si può interagire. E tenendo conto dell’egocentrismo inerente a questa età, quando il bambino X incontra il bambino Y è già un incontro predisposto al conflitto, perché probabilmente Y avrà qualcosa che X  vorrebbe avere o vice versa. È l’origine dei conflitti dice René Girard“…l’imitazione del desiderio dell’altro: nel momento in cui qualcuno fa un gesto per appropriarsi un oggetto, questo provoca in chi lo guarda lo stesso desiderio dell’oggetto.” A questo punto le vie sono due: o litigare per l’oggetto o trovare una mediazione per gestire questo interesse in comune (il giocatolo). René Girard lo chiama una ritualizzazione della violenza per evitare quella vera, quella distruttiva. All’inizio è più un giocare uno accanto all’altro che diventa poi un giocare insieme (o uno contro l’altro).Se l’altro viene riconosciuto non solo come rivale nella competizione per il giocatolo, ma come compagno con cui si può interagire, fare qualcosa insieme, comincia a crearsi la percezione dal “tu” al “noi”.

Nel passaggio al “noi” i giochi di gruppo diventano interessanti, quindi un “facciamo qualcosa tutti insieme, ci aiutiamo a vicenda”. Nella fase del “noi” il bambino impara a gestire i due modelli: “Noi e Loro” (cooperazione) e “o Noi o Loro” (competizione). Quando gli altri vengono percepiti come avversari, nemici ecc. entriamo nell’ottica della competizione dove chi vince   alla fine ha ragione perché è il più forte. E di conseguenza avremo tanti esclusi ed emarginati.   Il “ noi” inteso come l’insieme del gruppo nella sua diversità  non preclude che il bambino non possa scegliersi di volta in volta i sui compagni.  il giocare  rispettandosi pur imparando a negoziare, rende anche più difficile il  vedere l’altro come avversario. A livello di apprendimento il giocare in maniera cooperativa permette di sviluppare competenze sociali  come la solidarietà, l’aiuto reciproco,  il sostegno, l’empatia.  Insieme agli altri  possiamo raggiungere  obiettivi più complessi  di quelli che potremmo raggiungere da soli, soprattutto se siamo sotto pressione  . Il gioco diventa così anche campo di apprendimento sociale e non solo attività per l’integrazione  degli schemi corporei o di manipolazione di materiale. Aiuta cosi di sviluppare competenze sociali importanti per la  sopravivenza in una società che tende sempre più all’individualismo e all’isolamento.

Per quanto è stato detto prima, non è del tutto indifferente se un gioco viene giocato in modo cooperativo o competitivo, sia  che si tratta di creazioni, manipolazioni o giochi di movimento o giochi di gruppo. Quando giochiamo e diamo più importanza al processo anziché al risultato ci possiamo più facilmente mettere in gioco anche al livello socio-affettivo. Ma nel momento in cui cominciamo a paragonare  X con Y, che non sono paragonabili perché si tratta di due entità diverse, ognuno ha la sua individualità e le sue competenze sviluppate in modo diverso, entriamo in ottica competitiva. Quindi o X o Y vince, e di conseguenza l’altro deve reggere la sconfitta a livello emotivo. Se il gioco, come già detto, dovrebbe essere inteso come momento di esplorazione, sperimentazione, divertimento, ed Y ha solo una gamba, allora va da sé che sarà escluso o ostacolato in tanti giochi che si basano sul movimento e sul risultato finale. Di conseguenza Y ha poca scelta. O si ritira dal gioco perché nessuno vuole sempre stare dalla parte dei vinti, o sviluppa delle strategie di inganno per vincere anche lui almeno ogni tanto. Oppure diventa aggressivo.  Questo spiega perché al livello scolastico troviamo tanti bambini aggressivi ed inclini a litigare. Come educatori riconosciamo difficilmente che queste conflittualità ed aggressività sono già implicite nel tipo di giochi o nei modelli educativi che proponiamo. Quando cominciamo a paragonare due entità  che non sono paragonabili (diversi tipi di intelligenza per esempio) diciamo già che uno sarà il più bravo e l’altro evidentemente il più imbranato.. Da un lato è possibile che l’autostima del più bravo si rinforzi, ma il più debole sicuramente deve incassare le frustrazioni dovute alle  sconfitte e avrà meno possibilità di costruirsi una buona autostima.. Siccome il suo modello è il più forte o più bravo, ma non riesce a raggiungerlo, deve compensare con altri modelli  con comportamenti aggressivi e disadattati. Perciò è importante che al livello educativo ci poniamo la domanda: a che giochi giochiamo?

Le maestre che sperimentano i giochi che si basano sul mutuo rispetto, sulla cooperazione in modo continuativo nei loro programmi,verificano anche un cambiamento nel clima di gruppo che si riflette anche in altre attività. Il livello di conflittualità ed aggressività si abbassa e i bambini  mostrano comportamenti anche più cooperativi in altre situazioni della vita quotidiana. Terry Orlick, docente di Psicologia dello Sport all’Università di Ottawa, negli anni ottanta ha svolto una ricerca di durata di 18 settimane sull’influenza dei giochi cooperativi e il comportamento nelle scuole materne di Ottawa. Il progetto ha coinvolto 4 classi della stessa scuola di cui 2 seguivano un programma di giochi cooperativi mentre gli altri facevano il programma normale. Nella prima fase (8 settimane)i bambini giocavano 2 volte alla settimana per 30 minuti circa con una docente universitaria, e nella seconda fase  (10 settimane) le Maestre proseguivano con il monte ore raddoppiato le attività di giochi cooperativi. Il progetto era accompagnato da un gruppo di studenti, osservatori esterni che avevano il compito di valutare i comportamenti sociali. Le conclusioni al termine del progetto erano eclatanti: i gruppi che hanno seguito il programma delle attività cooperative ha mostrato anche  nella vita quotidiana una maggiore cooperazione, dall’accoglienza dei nuovi arrivati, al mettere a posto, al condividere giocatoli ecc. La litigiosità nei gruppi di controllo era molto più elevata. Gli insegnanti di questa scuola hanno deciso di applicare per tutte le classi uno stile cooperativo visto i risultati.

Se è vero che una volta i bambini imparavano in modo naturale le regole sociali ed i giochi venivano tramandati dai più grandi ai più piccoli, oggi queste condizioni non esistono più o solo di rado, allora non si può pretendere che i bambini imparino a giocare insieme  se nessuno gliel’ha mai insegnato. E’ come se a 3 anni dovessero già leggere e scrivere ma nessuno si è mai preoccupato ad insegnarglielo.

Tornando al nostro esempio dell’Y: avendo solo una gamba, dovrebbe aver uguale diritto di aver piacere nel movimento, ma questo diritto gli viene negato nel momento che noi come educatori poniamo tutto in una chiave competitiva (l’espressione verbale “vediamo chi è il più bravo” o “chi ha vinto?” induce già alla competizione) Lo stesso vale per la creatività, supponendo che Y ha anche solo un braccio (metaforicamente parlando). Se nell’età evolutiva ,che corrisponde alla fase dell’esplorazione e della scoperta, vengono stabilite precocemente i canoni del bello e del brutto (che per il bambino corrispondono all’ essere amato o no,) rischiamo di scoraggiare lo sviluppo del potenziale creativo che sta in ogni individuo. Se il bambino impara fin da piccolo che quello che fa non va bene,   alla fine non si impegna più. E  ha ragione. Perché dovrebbe esplorare e sperimentare  se i risultati non sono apprezzati dall’adulto?

Attraverso il gioco il bambino non impara solo di rapportarsi con gli altri ma soprattutto affina le sue competenze corporee, percettive e creative. Nel movimento (correre, arrampicarsi, strisciare, gattonare, prendere e lanciare) integra i suoi riflessi, impara ad orientarsi nello spazio, ad affinare la propriocezione (la reazione dei muscoli agli stimoli esterni). Il movimento gli permette di sviluppare la motricità grossa e fine necessaria per l’apprendimento scolastico.

Attraverso la percezione sensoriale si appropria di tutte quelle informazioni necessarie a costruirsi la conoscenza dell’ambiente circostante.

Attraverso la manipolazione (tagliare, incollare, montare, smontare, impastare, costruire, deformare…) egli acquisisce l’abilità manuale e la coordinazione occhio-mano e mente-mano necessaria per trasformare i progetti in realtà concrete, dando così alla sua fantasia una legittimità necessaria al suo sviluppo costante.

Lo psicologo, pedagogista e filosofo Jean Piaget ha identificato tre stadi di sviluppo del comportamento ludico nel bambino:

I giochi di esercizio prevalgono nel primo anno di vita, nella fase cosiddetta “senso-motoria”. Il bambino, attraverso l’afferrare, il dondolare, il portare alla bocca gli oggetti, l’aprire e chiudere le mani o gli occhi, impara a controllare i movimenti e a coordinare i gesti.
Dai 2 ai 6 anni  si sviluppano i giochi simbolici, cheaggiungono all’esercizio stesso la dimensione della simbolizzazione e della finzione, cioè la capacità di rappresentare attraverso gesti una realtà non attuale. L’esempio tipico è il gioco del far finta, del fare “come se”. Secondo Piaget il gioco simbolico organizza il pensiero del bambino in uno stadio in cui il linguaggio non ha ancora raggiunto una sufficiente padronanza, permettendo la manipolazionee la produzione di immagini mentali.

Infine, tra i 7 e gli 11 anni compaiono i giochi di regole.

Inizialmente essi sono imitazioni del gioco dei bambini più grandi, mentre, col tempo, si vanno organizzando spontaneamente, promuovendo la socializzazione del bambino (Atkinson & Hilgard’s, 2011).

l gioco rimane, tuttavia, un elemento fondamentale a qualsiasi età. Infatti“le esperienze creative che facciamo durante l’infanzia modellano gran parte di ciò che faremo poi da adulti – dal lavoro alla vita familiare”. (Goleman, Ray, Kaufman, 2001, p. 60)

È pertanto di fondamentale importanza, anche da adulti, riuscire a ritagliarsi dei momenti e degli spazi da poter dedicare al gioco, al divertimento, ad attività di svago da eseguire puramente per il piacere che il loro svolgimento produce in noi. Bisogna saper tornare bambini, mettere in pausa tutti gli impegni familiari, di lavoro, lo stress, la frenesia dei mille doveri e dedicare del tempo solo a noi stessi e a ciò che ci fa stare bene.

Imprescindibile è inoltre, per i genitori, giocare con i propri figli. Questa è un’occasione imperdibile per intensificare ed irrobustire i legami familiari, per creare una connessione profonda col proprio bambino e comprendere più a fondo e da vicino il suo punto di vista.  Se il genitore è disposto ad abbandonare il suo ruolo di adulto e a recuperare l’ingenuità e lo sguardo infantile, pieno di meraviglia, stupore e incanto, può cogliere molto del mondo del bambino, le cui dinamiche vengono rappresentato e simbolizzate durante il gioco. Infatti, “per i bambini, la creazione di drammatizzazioni e di sequenze di gioco può mettere a disposizione una situazione che restituisce una possibilità di rappresentazione metaforica di aspetti della loro affettività, un’occasione per organizzare e dare realtà esperienziale, soggettiva, ad aspetti del loro mondo interno” (Albasi, 2006, p.264).

Giocare è un’attività paradossale in quanto gli atti compiuti durante il gioco sono realtà e finzione contemporaneamente; proprio per questo motivo, esso è di fondamentale importanza anche in psicoterapia, sia con i bambini che con gli adulti. Nel lavoro psicoterapeutico con i bambini giocare assume un ruolo cruciale per la costruzione di una relazione contenitiva, caratterizzata da accoglienza, rispetto ed attenzione (Albasi, 2006).

C’è un rapporto interattivo e costruttivo nel gioco tra dimensione della realtà e dimensione della fantasia.

“Il bambino, aiutato dal terapeuta, può utilizzare il carattere paradossale dissociativodel gioco (Modell, 1990), il suo non avere conseguenze dirette sulla realtà quotidiana, per esplorare, senza assumersi la responsabilità di tutte le implicazioni, molteplici ruoli, molteplici personaggi, […] molteplici significati”.

Il gioco del bambino comunica e manifesta vissuti e conflitti profondi presenti nella sua mente.

“Il gioco permette al bambino di dire molto di più sui suoi problemi psicologici rispetto al registro dichiarativo mediato dal linguaggio verbale, soprattutto riguardo ai problemi profondi, […] che condizionano fortemente la sua esistenza.” (Albasi, 2006, p. 262)

Il gioco offre una grande possibilità di sperimentazione  e di sviluppo di capacità ed esperienze. “Il gioco è legato ai livelli più intimi e profondi del funzionamento mentale, alla regolazione degli stati affettivi, all’elaborazione dell’autonomia e dalla dipendenza delle figure di attaccamento, alla costruzione dell’identità e degli ideali; tutte queste dimensioni possono essere vissute e sperimentate nel gioco senza temere dirette e immediate conseguenze nella realtà”. (Albasi, 2006, p.265)

Vale la pena riportare un’ultima citazione di Cesare Albasi: “Un altro paradosso intrinseco al giocare è che il gioco permette sia l’adattamento al contesto di abitudini e valori socio-culturali (può concorrere all’apprendimento di regole sociali), sia l’esplorazione fantastica di alternative, di cambiamento, di possibilità e mondi ulteriori, di nuovi modi per comprendere l’esperienza, di nuovi ruoli e di scambio di ruoli, nuovi punti di vista e nuove soluzioni.” (Albasi, 2006, p.266)

Il gioco rappresenta pertanto una chiave per aprirsi a nuove prospettive, per comprendere, esprimere ed elaborare il proprio mondo interiore e sperimentare nuovi modi di vedere e vivere il mondo, a qualsiasi età.

E allora…Non smettiamo mai di giocare!

inoltre la vita moderna, cosi frenetica, ci costringe ad essere così concentrati sul lavoro e sugli impegni familiari, che non ci sembra di avere mai tempo per il puro divertimento. Sembra strano ma, con la fine dell’infanzia e l’approssimarsi dell’età adulta, smettiamo di giocare. Quando riusciamo faticosamente a ritagliarci degli spazi di tempo libero, al massimo ci piazziamo davanti alla TV o al computer. Di sicuro il poco tempo libero, che riusciamo ad avere, non lo passiamo giocando, come facevamo da bambini. Ma non è vero che, in quanto adulti, dobbiamo essere solo estremamente seri e pensare esclusivamente al lavoro. Anche gli adulti hanno bisogno di giocare.
Il gioco non è essenziale solo per i bambini, ma può essere un importante stimolo anche per gli adulti. Giocare con il proprio compagno, con gli amici, i colleghi, gli animali e i bambini è sicuramente un modo per sviluppare l’immaginazione, la creatività, le abilità necessarie per risolvere i problemi e per migliorare il proprio benessere emozionale. Non c’è bisogno di fare qualcosa di particolare per divertirsi. E’ sufficiente bighellonare con gli amici, scherzare con un collega di lavoro, lanciare un frisbee in spiaggia, travestirsi per Halloween, costruire un pupazzo di neve in giardino, giocare con il cane, partecipare al gioco dei mimi ad una festa o fare un giro in bici, senza meta. Durante la vita adulta l’attività di gioco può anche mettervi in contatto con persone che altrimenti non avreste mai incontrato, perché o appartenenti a diversi strati sociali o a causa della pigrizia, che porta, spesso, a frequentare soltanto colleghi di lavoro o coetanei. Il gioco stimola legami diversi dall’amicizia, ma può anche far nascere nuove amicizie, visto che giocando si rivela molto del proprio carattere. Platone sosteneva che: “Si può scoprire di più su una persona in un ora di gioco che in un anno di conversazione”. Quindi datevi il permesso di giocare, con lo spirito che avevate da bambini e ne trarrete enormi benefici per il resto della vostra vita.

I benefici del gioco per gli adulti:

Allevia lo stress
Il gioco essendo divertente può attivare il rilascio di endorfine, il farmaco naturale del corpo che aiuta a sentirsi meglio. Le endorfine promuovono un senso di benessere generale e sono perfino in grado di alleviare temporaneamente il dolore.
Migliora le funzioni celebrali
Giocare a scacchi, completare dei puzzle o utilizzare altre attività divertenti per sfidare il cervello, può prevenire i problemi di memoria e migliorare le prestazioni cerebrali. Le interazioni sociali che si originano dal giocare con familiari e amici aiutano a tenersi lontano da stress e depressione.
Stimola la mente e aumenta la creatività
Si sa che i bambini spesso imparano di più e meglio attraverso il gioco. Lo stesso principio vale anche per gli adulti. Si impara meglio una nuova attività quando ci si diverte e viene presentata in modo rilassato e giocoso. Giocare stimola anche l’immaginazione, migliorando l’adattamento e la capacità di risolvere i problemi.
Migliora i rapporti e le relazioni con gli altri
Scambiare quattro risate e divertirsi assieme agli altri favorisce l’empatia, la comprensione, la fiducia e l’intimità. Giocare non dev’essere per forza un’attività specifica, può anche essere uno stato d’animo. Sviluppare una natura giocosa può aiutare a rilassarsi in situazioni stressanti, rompere il ghiaccio con gli estranei, crearsi nuovi amici e anche nuove relazioni professionali.
Mantiene giovani ed energici

A riguardo citiamo le parole di George Bernard Shaw, il quale sosteneva che: “noi non smettiamo di giocare perché invecchiamo, ma invece invecchiamo perché smettiamo di giocare”. Giocare rafforza l’energia e la vitalità e migliora perfino la resistenza alle malattie, migliorando la qualità della vita.

E.M.